La famiglia Schroffenstein

Antonio Syxty mette in scena prima opera teatrale del grande poeta e scrittore tedesco Heinrich Von Kleis. La vicenda si nutre degli odi generazionali di due famiglie contrapposte: la casata di Rossitz, e la casata di Warwand. Fra esse si accende un odio efferato e crudele, che innesca una serie di omicidi diabolici, una vera e propria faida, che si colora di tinte forti, di momenti drammatici in cui abbondano i sospetti, gli inganni, le violenze più disumane.

locandina
anno
1997
testo
Heinrich Von Kleist
traduzione Ervinio Pocar
regia
Antonio Syxty
interpreti
Giorgio Monte, Rita Maffei, Fabio Sonzogni, Manuel Buttus, Patricia Zanco, Francesco Accomando, Maddalena Vadacca, Roberta Sferzi, Luigi Lo Cascio, Gigi Del Ponte
scene/luci
disegno luci Alberto Bevilacqua
musiche
Sibelius, Händel, Wagner, Beethoven
produzione
Centro Servizi e Spettacoli di Udine

APPUNTI PER UNA SCELTA Dl LAVORO

Kleist scrisse questa tragedia nel 1802, mentre si trovava in Svizzera, ma alcune scene dovrebbero essere state abbozzate a Parigi.
Inizialmente si intitolava La famiglia Thierrez, i personaggi avevano nomi spagnoli e l'azione si svolgeva in Spagna. Poi, durante la stesura, alcuni personaggi cambiarono nome, e la vicenda venne ambientata in Svevia, nella Germania cavalleresco-medioevale allora di moda.

La tragedia, considerata opera giovanile (Kleist aveva allora 25 anni), è la prima opera teatrale del grande poeta e scrittore tedesco, ed è anche qualcosa di più che non un semplice involucro teatrale. La vicenda si nutre degli odi generazionali di due famiglie contrapposte: la casata di Rossitz, e la casata di Warwand. Fra esse si accende un odio efferato e crudele, che innesca una serie di omicidi diabolici, una vera e propria faida, che si colora di tinte forti, di momenti drammatici in cui abbondano i sospetti, gli inganni, le violenze più disumane.

La Famiglia Schroffenstein dimostra, in una sequenza di scene sconvolgenti, l'impossibilita di scoprire il vero mediante concetti e illusioni, argomentazioni e prove, cioè con mezzi discorsivi, e fa risalire l'impotenza della nostra ragione, alla defezione dell'uomo da uno stato puramente naturale, all'innocenza che gli innamorati Ottocaro e Agnese sanno ancora testimoniare, ma non riescono più ad affermare nella degenerazione generale.
Sono evidenti i richiami a Romeo e Giulietta, con la differenza che qui la storia d'amore non è in primo piano, ma fa quasi da cornice alla tragedia, finché non ne diviene il momento culminante.

L'opera, raramente frequentata sui palcoscenici italiani perché considerata opera minore e giovanile, assume un suo particolare rilievo anche stilistico e drammaturgico, in quanto Kleist vi sperimenta il suo linguaggio, le risorse stilistiche, e non solo quelle. Il groviglio delle situazioni - così diverse dal razionale svolgimento schilleriano - porta per la prima volta nel teatro tedesco un elemento di anticonformismo linguistico, autonomo sia rispetto alla tradizione, sia nei confronti del realismo senza compromessi, ma a volte volgare, della commedia popolare.

In questa tragedia si formano i primi eroi kleistiani, incapaci di amare, o perlomeno, impossibilitati ad amare da un comportamento patologico che impedisce loro di amare in modo normale. L'innamorato kleistiano è eccessivo e crudele, pretende dall'amata una prova di assoluta: vuole una testimonianza di fiducia, più che d'amorea Perché egli dubita non solo e non tanto dell'amata, quanto di sé stesso.
Agnese ama Ottocaro, pur sapendo che egli ha dovuto giurare di ucciderla: beve senza esitare la coppa che egli le offre, e che potrebbe essere avvelenata. Ottocaro sa che Agnese è assillata dal dubbio, ma desidera da lei un supremo atto di fiducia; ottenutolo, si sacrifica per salvarla.

In questo incontro di lavoro e di conoscenza con il Centro Servizi e Spettacoli dl Udine ho scelto dl poter lavorare su questo testo di Kleist prima di ogni altra cosa perché mi interessava affrontare l'autore tedesco, e poi perché mi sembrava adatto per realizzare uno spettacolo che definirei "corale" nel vero senso della parola. L'ho scelto perché si poteva creare una compagnia di attori e attrici disponibili all'esperienza in cui ognuno avesse il proprio carico di responsabilità, rispetto al personaggio o ai vari personaggi che di volta in volta doveva affrontare. E non sono molti i testi classici che si prestano a un lavoro di questo genere, perché nella maggior parte dei casi essi ruotano intorno a personaggi principali, dai quali non si può prescindere.

Ho voluto affrontare questa tragedia di Kleist partendo dal presupposto che tutto il racconto che prende vita nei cinque atti della tragedia, sia il possibile cavo di trasmissione con una insondabile "vertigine" di cui siamo preda in questi anni di fine millennio. Tale vertigine condiziona le nostre menti e i nostri cuori a tal punto da non saper più riconoscere il vero dal falso; e per quanto noi ci sforziamo di vedere con gli occhi della ragione, non riusciamo a scorgere o a riconoscere ciò che è vero da ciò che risulta tale ai nostri occhi, ma non lo è, perché è solo una copia del vero, e quindi falso.
Tale vertigine è quella che generar nel peggiore dei casi, il fantasma dell'odio, che annulla il "sentimento del diritto" di cui parla uno dei personaggi della tragedia, a favore di una faida spietata che mette uno contro l'altro i membri consanguinei di una stessa famiglia.

La vertigine che anima le menti e i cuori dei personaggi kleistiani, in questa tragedia, e talmente moderna che assume il carattere di una visione virtuale della realtà dei nostri giorni.
La cecità - non fisica, ma mentale - che accompagna questi personaggi lungo tutto l'arco del racconto, è emblematica e modernamente rituale, proprio perché contiene in sé una perdita costante di memoria e di sguardo interiore. Ed è una cecità che si autoalimenta proprio perché inverte la luce (il vero) con la tenebra (il falso).
Tale gioco di scambio, messo in atto dai personaggi di questa tragedia, diventa particolarmente vero a teatro, dove il falso diventa vero e viceversa.

In questa direzione ho chiesto agli attori di seguirmi in questa perdita costante di un centro di gravità; ho chiesto loro di alimentarsi in moto ipertrofico nella ricerca di quella vertigine che Kleist stesso mette in atto, facendoli scontrare fra loro (i personaggi) come navi alla deriva, come "come torri di carne, al di là del bene e del male" (parafrasando Musil). Ed essi, in fondo, - me; cosi come ho voluto rappresentare il quinto atto della tragedia - sono senza colpa, senza memoria, senza ricordi, senza possibilità di uscita: un unico motore immobile, perpetuo, invisibile, frutto di un meccanismo che sembra sfociare in un odio che non riesce a consumare sé stesso, proprio perché non è "in grado di vedere sé stesso", proprio come un vampiro che cerchi la propria immagine in uno specchio. Così tutto finisce in burla, esattamente come suggerisce Kleist nella chiusura del quinto atto, proprio perché "la porta della felicità è sprangata
dall'interno”.

Così la tragedia si trasforma in una sorta di discesa agli Inferi necessaria alla "recita", alla "danza macabra", alla "giostra” di vicende e passioni che Kleist mette in atto, e nel fare questo ho voluto realizzare un teatro in forma di manoscritto ritrovato, da consegnare a un pubblico, cercando di metterlo nella condizione di avvertire inconsapevolmente la perdita di una coscienza di sé, di una memoria, ma soprattutto la perdita di un racconto, che è poi quasi sempre il racconto di sempre, quello che ci manca di più.
Non so se ci sono riuscito, ma so che vorrei che fosse così.

Antonio Syxty
Udine, 17 marzo 1997

Tournée

prima assoluta

20 febbraio - 23 marzo 1997

Udine, Spazio Teatro Capannone